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2009 Su
Marisa Settembirini, Novecento e Oltre.

E' dentro il Novecento che si stempera l'arte contemporanea, o meglio si conforma dentro la storia di un secolo da noi e da molti vissuto attraverso segni e segnali di paradiso e  inferno, distruzione e speranza, quasi una faccia bipolare che si sfoglia e campiona eventi e volti di scienza e sapienza, di letteratura e di arte, di rivoluzione e di ritorno all'ordine. Non poteva essere altrimenti e non poteva ciò sfuggire a molti artisti contemporanei che in questo contesto hanno avviato, vivacizzato e colto la loro sfera iconica e/o aniconica. Dico ciò per togliere di mezzo subito ogni parola vuota, ogni fuorviante attenzione verso scelte estetiche fini a se stesse, e operare quella scelta di individuazione della realtà e della storia capaci da sempre di sorreggere, come d'altronde è stato, l'arte dei secoli. L'arte deve e può esistere dentro la storia, e la deve raccontare per immagini, catturate dall'io e dalle emozioni ma anche dalla realtà. Lo sosteneva anche il mio illustre maestro e collega Giulio Carlo Argan che mai distaccò la sua lezione dalla storia e in essa avvolse le sue pagine di critica più vive. Così mi pare abbia da tempo operato Marisa Settembrini, e vi insiste ancora oggi con questo capitolo pittorico tutto organizzato sul “novecento e oltre”, ancor più con finestre capaci di focalizzare non solo personaggi e figure come Giovanni Paolo II, Mussolini, Picasso, Ghandi, ecc., ma argomenti come la guerra, il razzismo e lo sterminio, il fascismo, il lavoro e l'alienazione. Tutto ruota intorno alla storia di un secolo, memoria forte e registrazione estetica di sintesi iconica e ritualità dell'informe. 

La bellezza ha rotto gli argini e come un fiume in piena attraversa in modo eclatante il recente lavoro di Marisa Settembrini, che insiste sul tempo che passa e dura  affrontando le contraddizioni dei miti d’oggi, come rammenta l’Accademico di Francia Jeane d’Ormesson, per portarsi poi su quella sfumata affermazione della modernità  già vecchia nel momento che si avvia ad essere nuova e puntare il dito sul senso del divenire, con segni, colori e icone.

Le icone-collage, immagini  estrapolate  da testi, libri, e quant’altro, raccolgono  il flusso della storia, quel procedere del mondo, quella ventata di eternità che  fissa secondo la forma di Tucidide, un ktema es aiei, ovvero un tesoro persempre.  
La finestra aperta è sempre un motivo di respiro illimitato, di fuga nello spazio. Le icone-collage raccontano bei profili maschili e femminili, pagine scritte, oggetti di culto, immagini di un tempo interiore ed esteriore, il mondo della tradizione e dell’ironia, dei media, paesaggi di terra e di cielo, gesti raccolti ove tutto è  sorpreso nello spazio infranto e la materia che attorno vi alita dilatata, sono una inaudita ricchezza di risonanze innestate le une alle altre, capaci di raccontarci non un inseguimento del vero, ma l’inesistenza sensibile accanto all’allusione  efficace all’esistenza.

La bellezza di questi dipinti della Settembrini, i ritratti effervescenti, l’arduo gioco della sua invenzione, la modernità assoluta del linguaggio, stanno  proprio  nella commistione di lacerti di colore e di segno, in cui vive l’umanità allo specchio, amalgamati da una materia che rompe lo spazio profondo cristallizzando proprio quello sguardo che si mostra di un’assoluta preziosità. E’ anche un modo nuovo di porgere con tecniche diverse, l’immagine dello sguardo in relazione alla letteratura, alla filosofia del nostro tempo, uno sguardo eroico che diventa dono, freddo  e  scolpito, reale e indimenticabile, intellettivo e colto.
Questa verità artistica  miracolosamente salvata dal fare efficace di Marisa Settembrini, induce a leggervi non solo un colore composto, ma anche i riflessi e le sovrapposizioni.

Dentro ogni opera vive un generatore di bellezza che ne argomenta sia  la scelta del reperto cui l’artista ha posato l’occhio per il recupero e l’avvitamento creativo, sia  lo sguardo di un ritratto che cambia sotto la pressione dell’odore del tempo.
Appunti dipinti che posseggono una loro maturità qualitativa, in quanto la rappresentazione coloristica  è servita con il proprio movimento informale a  dare efficacia suggestiva all’attitudine dello sguardo, catturata e fermata dall’occhio fotografico, ma fusa poi nell’infinita delicatezza della ricreazione del mondo invisibile.

La sua è una generosa interpretazione nuova, nuovissima, del nostro tempo, del tempo delle immagini, dell’altramodernità che sale come un sipario a chiudere un’epoca e ad aprirne un’altra.

Da anni Marisa Settembrini sembra riscrivere a colori un’ Anabasi, cose viste, cose catturate, mescolando cronaca e cultura, arte e mestiere.  
Il tempo passa ma l’Avanguardia non è fuggita, così Marisa Settembrini vive la sua Avanguardia in un modo che sa d’altramodernità, portandosi verso orizzonti nuovi senza tralasciare le  vecchie orme che si leggono persino nel  segreto delle parole, dei segni e delle onde di colore, dalle nuvole laboratoriali che stringono l’immagine, le immagini del mondo, fermate proprio in quella fissità  che reclama sia la potenza espressiva, sia il senso intimo dell’apparizione, sia l’espressione del bello che racchiude l’immagine in cornice, sia l’espressione suggestiva della riflessione filosofica.

Le opere  sono pagine che ci fanno accedere a una natura filtrata da un laboratorio poetico che opera in modi per certi versi analoghi a quelli di un laboratorio scientifico. Segni e macchie, orlature di colore, inserti visivi, recuperano un corpo antico di immagine. Ogni opera è un sopralluogo. In ogni sopralluogo l’artista cattura le immagini più belle del mondo, di quello terrestre e di quello celeste. In ognuna di queste immagini c’è il brusio della storia, la cadenza del quotidiano, la poesia del colore, il segreto delle costellazioni che si specchiano oltre lo zenith. Marisa  Settembrini con  questo intervento intellettivo e coraggioso, offre della pittura il lato più innovativo, giacchè esso contiene il cuore delle cose, che è quasi un viaggio nell’anima.

E a quanto blaterare si fa oggi su un’arte che non media, non interpreta, non assegna e non sceglie, e non offre la pacificazione  di forma e materia, e neppure il rito di passaggio da una realtà a un’altra, ovvero  in tensione verso quella che scomodamente si chiama bellezza, approdo e porto che  antichi e moderni hanno esplorato; ebbene Marisa Settembrini, viaggiatrice instancabile  si porta in un vasto mondo dove la magia di nuove immagini, paesaggi e storia, è linfa vitale e stimolante, anzi autorevole prova del fuoco.

Carlo Franza, Milano, 15 dicembre 2009

2005 Su

La grande croce di Marisa Settembrini.

San Benedetto nell’ultimo capitolo dei dodici che dedica all’Opus Dei afferma: “Riflettiamo a come dobbiamo essere di fronte al cospetto della Divinità e dei suoi angeli,e quando salmodiamo, comportiamoci in modo che il nostro spirito sia in accordo con la nostra voce“. L’ascesa dal mondo della materia fino al mondo degli angeli e di Dio non può essere meglio compendiata se non guardando la Croce, giacchè è attraverso di essa che si compie il mistero della redenzione e quindi il miracolo della salvezza, la sconfitta della morte. Nello sfondo di questo mondo invisibile, l’intero mondo visibile si mostra in un’unica grande liturgia, proprio perché le forme - la Croce in particolare - le sono proprie. Le opere dell’uomo, l’arte umana, rendono intelligibile la creazione, ed è per ciò che l’espressività delle forme è importante; la forma liturgica è presentata come uno stadio purificato del mondo delle forme culturali, con lo scopo solo di fornire i segni per mezzo dei quali si esprime e si realizza la fede. In questo senso e alla luce di ciò l’artista Marisa Settembrini, figura significativa dell’arte internazionale ,della quale si sono già interessati, scrivendone, i più illustri Critici e Storici dell’arte, ha elaborato, sviluppandola, la grande Croce che oggi si erge nella Cappella di sinistra della Chiesa Santuario dedicata a San Vito in San Vito Lo Capo. Ha per titolo “In principio era il Verbo”,ed è composta da duecentosessantacinque tessere in forma quadrata, per un totale di 300 per 300 cm e dipinte secondo uno stile caro all’artista milanese, in cui la pittura di stampo informale  lascia cogliere inserti ,reperti,icone, ove la parola e l’immagine fanno vivere la Croce non come simbolo di dolore, ma occasione di paradiso, di resurrezione, di luce. In essa, proprio perché Cristo vi ha consegnato la sua natura umana, è raccontata la storia dell’umanità, la croce di ogni uomo, la sua quotidianità e la sua fede,ma anche la speranza e la parusia. Capolavoro di grande modernità questa Croce della Marisa Settembrini,esposta ancor prima d’essere collocata in San Vito Lo Capo a Milano nella Basilica di San Carlo al Corso; e capace di raccontare attraverso lo stile artistico  carico di scritture e segni divini, di ritmi e di strutture, di partiture ed archetipi, di cifre e confessioni, le vicende nuove che interrelazionano liturgia e cultura artistica.

Vi è, dunque, qualcosa di prezioso nel criterio di valorizzazione della casa-fortezza-chiesa dedicata a San Vito, là dove si rintraccia qualcosa di più forte che una analogia tra l’ospitalità liturgica della chiesa e “l’abitare da poeta” che la casa consente, come direbbe Bachelard. Aver collocato una Croce nuova, e nuova nel senso che l’installazione opera della Settembrini esce fuori dai canoni visivi che per secoli cì sono stati consegnati, fa ritagliare al nuovo millennio la presenza reale di Dio tra gli uomini. Una Croce che essendo alfa e omega, inizio e fine di ogni cosa, fosse il simbolo di una rivoluzionaria concezione dei rapporti di Dio con gli uomini, e consentisse il continuo rinnovarsi dell’incontro di Dio con il suo popolo.

Nella Croce coesistono centinaia di tessere che sono opere di rara bellezza e vive di per sé, in quanto lasciano leggere l’immagine icona come un cuore pulsante nei colori e nelle biacche che attorno vi alitano come nuvole in festa.
Da “La Storia della Vera Croce“ di Piero della Francesca nella Chiesa di San Francesco ad Arezzo fino ai Crocifissi di Giotto, Masaccio e Cimabue, e ancor più in epoca recente la “Crocifissione” di Renato Guttuso del ’40-42 in formato 200 per 200 cm, campionano le ragioni che hanno spinto gli artisti nel tempo a cimentarsi in un tema di tale impegno.

In un gioco di richiami filosofici e intellettuali, la Croce della Settembrini mantiene alta la razionalità del linguaggio e del valore artistico, frutto di una parola-mmagine che si accerta nella tradizione dell’arte occidentale , e vive come un abito che veste il corpo nudo della Croce. E l’espressività di questa funzione fa ritrovare nelle varie parti del vestito – tessera tutti e due i termini di vestito e corpo. Dico ciò perché non si poteva chiedere all’artista di più di una simile traduzione moderna del simbolo e del segno. Nel decimo libro delle “Confessioni“ di Sant’Agostino (VI.8)  c’è questa testimonianza: ”Ma che cosa amo quando amo Te? Non una bellezza corporea, né l’ordine del tempo; non lo splendore della luce, né le dolci melodie di canti di ogni genere; non il profumo dei fiori, degli unguenti o delle spezie;non la manna, né il miele, né braccia che invitano all’amplesso. Io non amo nessuna di queste cose, quando amo il mio Dio. E tuttavia amo qualcosa che è simile a una luce, a una voce, a un profumo, un cibo e un amplesso, quando amo il mio Dio, che è luce, voce, profumo, cibo e amplesso per la mia vita interiore, ove risplende ciò che non occupa alcuno spazio, ove risuona ciò che non perisce con il tempo, ove esala un profumo che il vento non può disperdere, ove si gusta un cibo che l’appetito non diminuisce, ove stringe un amplesso che la sazietà non scioglie. Questo amo, quando amo il mio Dio”.

Questa Croce settembriniana è, dunque,un segno di forte modernità, perché comunica con un linguaggio colto uno stimolo all’esplorazione di molti altri campi dell’arte, si porge come sintesi di bellezza e densità, originando una preghiera personale; e divenendo un grande monumento, un monumento di fede - proprio perche ”significata e realizzata” (Costituzione “Sacrosanctum Concilium”) - si campiona anche come monumento della cultura artistica del nostro tempo.

Carlo Franza, Milano, 24 maggio 2005

2004 Su

L’evento della memoria.

Quando una pittrice come Marisa Settembrini ha nella sua storia artistica anche l’appartenenza alla scrittura della critica e delle interpretazioni, lo sguardo del nuovo interlocutore è inizialmente compromesso. Deve, come può, riconquistare l’ingenuità del proprio costume, al di là delle parole, con cui la confidenza è maggiore, che conducono lo sguardo a certi approdi definiti. La pittura appare già tradotta in alcuni reticoli dell’espressione scrittoria. La forza persuasiva dei discorsi imprigiona il proprio saper sentire, meglio ascoltare, il linguaggio delle opere, e tende a “riconoscere”, come se la verità del testo pittorico fosse più facilmente rivelato nell’altrove. Leggo le parole dell’indimenticabile poeta Roberto Sanesi: “Per entrare in un album di memorie: quello appunto dell’artista che è un tempo multiplo e simultaneo, dove s’addensa il visibile di uno spazio passato attraverso l’immaginazione (…)” Tempo dell’espressione, spazio del segno: una collusione felice che condiziona subito, nella sua forza indicativa, la mia apertura di discorso già sempre attenta, poiché questa è la sua origine, ai sintomi del tempo. Leggo l’ottimo Domenico Montalto: “Si incontrano e convivono in questi quadri dalla cromia meditata e raffinata (…) i due sempiterni estremi della pittura: la fissità congelata, univoca, e “sacralizzata” dell’immagine e la mobilità polisenso del segno (…). Ecco una strada maestra che conduce alla pittura di Marisa Settembrini. Eppure, necessariamente, tra ogni insieme di significati linguistici e l’opera pittorica continua a esservi una differenza che non si colma mai. E’ l’eccedenza del pensiero pittorico rispetto al discorso che con continue traduzioni metaforiche cerca di colmare l’abisso. Il nuovo interlocutore è quindi senza protezione, deve sfidare il pericolo di ricominciare da capo : immer wieder.

Il gioco espressivo pare giocato su antinomie potenti: forma-informe, stilizzazione simbolica-magma vitale, cognizione e scoperta, passato e contemporaneità, citazione e fantasia. L’effetto è la loro composizione in una memoria inevitabile, ma del tutto serena. E’ un approccio questo che illumina o che nasconde? L’ambiguità deriva dall’appello che l’opera d’arte rivolge a chi immagina di poter tradurre il pensiero che vi è materializzato nell’orizzonte visivo. Troppa confidenza nella relazione tra l’occhio sensibile e la fiducia in una analogia della parola? Ma per dire occorre almeno fingere questa confidenza e allora dirà che la memoria ha una pluralità di frammenti archetipici: il femminile, l’inarrivabile preziosità del testo, la devozione religiosa, l’origine della cultura nostra nel codice, l’angolo del segno perfetto e lo scrittore che ritorna dal suo destino. E’ l’antologia del tempo che non solo non si dimentica, ma la profondità del ricorso impone una sua visibilità. La collisione è con il segno della contemporaneità dove la figura è dissolta nell’infinità cromatica, nel gioco delle sfumature che fuggono al di là di ogni finito. E’ una pittura sapiente quella di Marisa Settembrini che usa il colore in tutta la sua possibile frammentazione narrativa e nella sua forza compositiva. E’ la continua scoperta di una seduzione affettiva sull’osservatore. Mi domando quale senso abbiano alcune assenze cromatiche, quelle più aggressive, e allora mi pare che questa assenza sia a mostrare la tonalità di una pittura che, all’intensità dell’espressione, fa corrispondere la misura del dire, un colore che non cerca mai il trionfo, ma un suggerire immaginifico. Ma su tutto, il bianco che illumina come da uno sfondo innocente l’evento della memoria che s’inoltra in un racconto.

Posso cercare di inventare metafore pertinenti, ma il quadro non si trascrive oltre un certo limite, la parola mostra la sua incompletezza, e il segno sfugge nel silenzio della sua intraducibilità. La sensibilità dello sguardo si posa su ogni opera, e per dire deve quasi dimenticare la seduzione che era propria del suo silenzio. Il sensibile richiederebbe un linguaggio che sia pari all’oggetto, è ancora un linguaggio pittorico come continua interpretazione: è quello che accade anche a Marisa Settembrini, sebbene indicare le fonti mi pare un esercizio di eccessiva razionalizzazione. Posso tentare di dire qualcosa sui soggetti che emergono nel panorama che riesco a ricostruire. Lo splendore della figura nel nudo femminile con bambino. Lo sguardo è da figura rinascimentale, l’apriori bello, la perfezione, la regolarità, l’idealizzazione che appassisce solo nello sguardo che non è rivolto al bambino ma all’incognito della relazione tra il corpo femminile e il bambino, come una profonda perplessità intorno alla appartenenza e alla estraneità dei due corpi, il legame tra i due corpi è come un’onda senza moto, mentre il corpo femminile sfuma in un confine indeterminato: non c’è alcuna realtà figurale al di là del senso della composizione. Una scena che ha persino qualcosa di un insegnamento intellettuale. Uno dei numerosi suoni possibili della ricca e sapiente pittura di Marisa Settembrini.

Fulvio Papi, Milano, aprile 2004

2003 Su

Eterne armonie.

I nuovi esiti pittorici di Marisa Settembrini spingono la materia in una sintassi più interna, più interiore, più diaristica, fatta di movimenti-gesto, movimenti-segno, movimenti-scrittura. Ella si affida, oltre la circolarità tematica della sua pittura, che ci aveva abituato alle icone della memoria, alla mimesi e alla reinvenzione di scritture che in profondo valgono come stile o stilizzazioni, ed anche come gesto sacrale di una luce che nel “verbo” si accende. Al confine tra l’oscurità e l’estasi, gli occhi nostri oggi spaziano in una visione ove il gesto della scrittura può essere un segno della Babele, ma anche un autoritratto dell’evangelo, ovvero una pittura tesa alle grandi forme espressive, nel tempo altro del silenzio. La pioggia di lettere dell’alfabeto è l’atto imperativo dell’espressione, del battito della vita, del cuore della comunicazione, del verbo che si fa corpo.

La parola si rianima nella materia pittorica che sa di biacco, di color ghiaccio, in un cielo estenuante di velature, desimbolizzando ogni forma. Oltre l’icona resiste l’evento dell’idea che si traduce in una scrittura, come posizione di inizio e di fine, di alfa e di omega, di confine e di infinito. E tutto si annega in questa estremità di toni e colori, di materia che sfora in questi scenari, grandi e piccoli, del terzo millennio, ricostruiti come appunti su tavolette assemblate in un’unica grande pagina, o in telari assediati da una traccia profonda di senso e di destino.

Rimane il corpo, presente nel suo brandello di follia vissuta e nella sua commovente finitezza di espressività. Il corpo della scrittura, il corpo della lettera, il corpo di un’idea, il corpo di un’immagine tanto più misteriosa quanto più quotidiana, il corpo di uno sguardo perso o raccolto nel suo tragico esilio o destino, il corpo dei sensi protratti in un gesto per cui l’immagine pittorica o l’icona-collage è immersa nella vertigine dei significati.

Marisa Settembrini si è affacciata già da qualche anno sulla scena della pittura europea raccontando in un gioco di luci, di materie, di relazioni, di interpretazioni, la vitalità di un’espressione artistica capace di fare interagire esistenza e storia, teologia e mito, poesia e citazione.
Dal pathos esistenziale, dall’innocenza primordiale, dalle probabilità linguistiche, dall’immagine come nuovo romanzo, l’orizzonte della pittura di Marisa Settembrini ha raccontato luci e tenebre, cenere e volti, scritture e segni divini, in un gioco febbrile di ritmi e strutture, di partiture e archetipi, di cifre e confessioni.

C’è da dire che una costante evoluzione nella pittura si è avuta nel suo percorso in questo ultimo decennio, frantumando l’immagine in segni e macchie di colore, macchie che a volte paiono nuvole di toni che dall’alto in basso scavano per mille rivoli della tela il filo che tiene unito sia il cielo che la terra.

E pensare che Marisa Settembrini aveva iniziato a dipingere negli anni Settanta in quel clima della nuova figurazione, come allora si chiamava quella parte di avanguardia che voleva il rinnovamento della pittura. Si impose a Roma alla Quadriennale ed ebbe già nelle sue prime mostre italiane ed estere, specie quelle newyorkesi, l’attenzione della critica più qualificata che additava la novità del suo lavoro e ne coglieva la singolarità che poi via via ha trovato molteplici riferimenti.
Sanesi, attento critico e intellettuale colto, volle in quelle immagini impressionistiche che si avviavano alla consumazione, o meglio alla riduzione, cogliere quel sistema di pittura informale prima e di novità della pittura visuale poi come spettro di poesia visiva.

Era una febbre di colore che riusciva a dare sulle tele emozioni colte, pur non rinnegando il riferimento alla realtà, all’immagine, alle tracce dell’accademia. Via via questa ricerca si è negli anni accentuata, salvando l’immagine solo come icona nuova, nuovissima, estrapolata da testi e contesti antichi, e innescando tecniche diverse, dal collage alla scrittura, dal segno alla gestualità.

Era questa una lezione che si affacciava in quella pittura d’avanguardia americana, dove tracce e segni accendevano memorie, ma giocavano anche rimandi sul mondo pubblicitario, sulla scrittura, sulle parole, sui media che giornalmente ci piovono addosso.

Da Andy Warhol a Mario Schifano la lezione è stata aperta a mille circostanze. Qui nella Settembrini le analogie hanno lasciato il posto alla lezione colta, all’icona salvata, a una nuova icona contemporanea, a un’immagine come ritagliata fra mille, prima decontestualizzata e poi ritrovata in un mare di colore, di acque colorate, di segni aggettanti come un tornado.

Opere come “linea di luna nuova, nell’amore, incoronata”, lasciano evidenziare questo lavoro di consonanza, spesse volte articolato in una serie di tele, talune grandi altre più piccole, ma tutte cariche di poesia. La struttura compositiva di questi dipinti ove segno e disegno, ma anche scrittura e colore, ci offrono, come osserva il Prof. Andrea Del Guercio, soluzioni di unità estetica tralasciano, però, la proiezione personale di volti e corpi, o almeno di parti del corpo che qui rivelavo quella grande lezione a suo tempo acquisita e mai dimenticata, ovvero la scuola di ritrattistica fatta alla Kunst Akademie di Monaco di Baviera.

Si capirà allora come accademia e nuovo oggi convivano in una sorta di modernità in queste tele e lavori recenti della Settembrini che si pone fra le pittrici europee più in vista e più ricercate per la novità, per la cultura, per la dialettica di questa pittura.

Parole, alfabeti, calligrafie sono una parte che ruota attorno alle macchie di colore, ma anche alle immagini-collage, come nella “serie de l’angelo”. Fra scrittura, iconografia e colore c’è tutto il mondo, o meglio il racconto a più voci, un racconto sempre nuovo e totalmente vissuto.

Carlo Franza, dicembre 2003

2000 Su

I – frammenti – di Marisa Settembrini.

Dall’osservazione diretta di un certo numero di tavolette dipinte da Marisa Settembrini, ho potuto apprezzare l’impegno rivolto nel tentativo di lavorare non sulla certezza di un soggetto attraverso un processo di immediata visibilità, ma attraverso la forza di penetrazione delle sfumature, delle incertezze, dell’inafferrabilità del “frammento”.
Per frammento intendo indicare una processualità espressiva della Settembrini in cui l’uso del colore, il ritaglio fotografico, la pagina di un libro, risultino tarsie di uno stesso racconto che solo una percezione sensibile e attenta può percorrere; il colore, condotto a spatola, ancora con un mirato valore segnico, frequentemente materico, si distribuisce sulla superficie con una funzione di sottolineatura, con un ruolo cioè di accensione dello spazio in cui la comunicazione scritta e quella visiva trovano collocazione.
Ognuna di queste piccole tavolette vive sicuramente una vita propria ed è palpabile la ricerca poetica che agisce al suo interno, ma la struttura compositiva che l’artista predispone suggerisce la moltiplicazione di valore e quindi la forza comunicativa del singolo frammento.
Anche nelle opere di più grandi dimensioni, gli elementi espressivi, quali la scrittura e il colore, il segno e il disegno, ci offrono soluzioni di unità estetica interna ma anche valore culturale caratterizzato da una parcellizzazione dei soggetti tematici coinvolti.
Ogni opera o gruppo di piccole opere si propone attraverso le diverse strutture narrative in un clima che potremo definire “archeologico”, dove a questo termine non attribuisco carattere storico-scientifico, ma proiezione sul concetto ampio dell’esperienza esistenziale personale: i volti, i corpi, le citazioni della storia dell’arte, sembrano infatti affiorare da una materia calda ed avvolgente circondata da un colore che interpreta ed esaspera in alcuni casi, il messaggio racchiuso nel soggetto.
La pittura che comunque ha sempre spessore, mai acquerellata, ed a tratti plastica, conferma un paesaggio ricco di vitalità, animato da bagliori, da accensioni, da frequenti contrasti tra la luce e il buio.
La presenza del bianco conferma quell’insieme di valori quali la tavoletta stessa di legno che ci permettono di definire l’interesse espressivo della Settembrini orientato in senso linguistico dove cioè i diversi linguaggi sono testimoni del proprio apporto poetico.
La cultura del collage, sulla quale l’arte moderna si è metodologicamente costruita trova in questo lavoro della Settembrini nuove ed originali suggestioni.

Andrea Del Guercio

1997 Su

Il mito della pittura.

“Le antichità ci costringono a trattarle come cose sacre”, scrive Novalis nei Frammenti di estetica. L’antico è la mitologia della modernità, è l’agognato vello d’oro di un’epoca – la nostra - sorta all’insegna del sublime, della bellezza come conflitto, come choc che preclude il godimento di un’armonia accessibile ai sensi e al senso comune. Sotto sotto, tutto il nostro secolo al declino aspira – per dirla con Ezra Pound  - a “ricomporre le membra di Osiride”; chiede insomma, sotto il clangore mediatico di infinite prassi “artistiche”, di tornare a quel nomos, a quella regola della mente e a quella legge del bello, che l’antico celava e custodiva. Quando sant’Anselmo – parlando della divinità – definì il sublimen come “ciò di cui non si può pensare niente di più grande”, finì di fatto – malgré lui – con l’aprire le porte all’estetica, se tale si può ritenere, moderna: il bello cessava di essere autofondativo; perdeva la sua universale ma anche artigianale valenza di lingua (“sistema di valori”, Barthes) per divenire linguaggio, cioè portato della psiche individuale. L’egida, lo scudo di Atena col quale la dea pietrificava i nemici, era sì guarnito della testa di Medusa, l’aspetto più terribile del divino, ma era anche – banalmente – uno scudo, per di più in pelle di capra: in antico, persino la divinità, e quindi anche la bellezza, facevano parte di qualcosa di più grande, l’essere. La cesura moderna ha interrotto questa fluidità, così poetica, relegando il bello a sublime, anzi impantanandolo nel sub-limo, nella palude della psicologia. Ecco allora che l’arte, oggi, deve ripercorrere faticosamente un cammino a ritroso per ristabilire quel continuum tra il bello e l’essere, tra la forma e la vita. Non si tratta, sia ben chiaro, di fare del passatismo, o della semplice citazione; il nòstos, il viaggio alle fonti dell’immagine può avere, certamente, ricadute culturali e persino iconografiche, ma è soprattutto un fatto cognitivo, un modo di guardare alla morfologia delle cose. Ed è proprio questo lo sguardo che sottende le ultime, singolari opere di Marisa Settembrini: non a caso Roberto Sanesi, presentando – da poeta -  una mostra della quarantaduenne pittrice pugliese, ha parlato di “…  una specie di nostalgia dell’origine”. Le opere che la Settembrini va elaborando, con risoluta coerenza di visione, da tre/quattro anni in qua, mettono appunto in comunicazione mito e psiche, la volontà di raccontare propria  della bellezza classica con la necessità – da artista dei nostri giorni – di riconoscere, nel fare, una cifra individuale di poetica e di stile. Certo, il mito che la Settembrini recupera in questi dipinti non è il mito classico, bensì – tout court – il mito della pittura: la certezza, depositata nella grande tradizione, che essa potesse erigersi ad alter ego della realtà, a canone, fino a correggere gli errori dell’originale, cioè della natura. Ebbene, di quel mondo mitico i quadri della Settembrini (supporti di legno o di juta talora centinati come rinascimentali pale d’altare; altre volte “sforanti” nella terza dimensione a fisarmonica, come separé aspersi di pittura; o ancora come mezzelune-totem, ieratiche e insieme lievi) includono, quasi casualmente, con la tecnica del collage, lacerti e monconi, sorta di reliquie affioranti nel colore di fondo che le campisce e nel segno che prolifera. Naturalmente, si tratta di una casualità fittizia, perché in realtà la dislocazione di queste icone del passato sulla superficie del dipinto è eterodiretta da un senso impeccabile e musicale della composizione, della conduzione e degli equilibri interni del quadro; insomma dalle necessità intrinseche dell’operare pittorico, che quegli stessi lacerti spesso sommerge e annega. Si incontrano e convivono, in questi quadri dalla cromìa meditata e raffinata (fatta di bianchi calcinati, di verdi-acqua, di liquidi viola, di rossi carnicini, di gialli sonori e innaturali) i due sempiterni estremi della pittura: la fissità – congelata, univoca e “sacralizzata” dell’immagine e la mobilità polisenso del segno; il segno, la cui nozione è e resterà sempre, in pittura, quella individuata da sant’Agostino nel De doctrina christiana: “Un segno è una cosa che, oltre alla specie inserita dai sensi, richiama, di per sé, alla mente qualche altra cosa”. Nella profondità della pittura – che è materica ma mai turgida o stopposa, anzi ridotta a quel minimo bastante a far apprezzare la grana della tela – la Settembrini inserisce segni iterati, come in una felice trance della visione o in una sorta di tachisme dell’anima: virgole e macchie sommesse, ondivaghe, lievitanti, volitanti, in cui giustamente Enzo Fabiani ha letto “memorie” di Twombly e di Mattioli ma anche – aggiungeremo noi – di un Fautrier, e dei modi di certa grande scuola di New York, per esempio di un Congdon. Con mestiere, ma anche con intatta capacità di emozionarsi, la Settembrini restituisce qui al gesto del dipingere – e di conseguenza alla pittura, che l’epoca della tecnica avrebbe dovuto destituire di ogni “aura” – l’antico sigillo di mistero e l’inderogabile statuto di poesia.

Domenico Montalto

1995 Su

L'immagine citata.

Se un ritratto debba assomigliare, e a che cosa, oltre al chi (spesso così misterioso) a cui ha dovuto sottrarre i segni che lo distinguono. Perché a volte un ritratto si ritrae, prende le distanze, pretende un’identità che appartenga a se stesso, mantenendo una memoria del suo portatore originario (se così si può dire) ma attraverso un suo gioco di riflessi, di rimandi, che è il gioco dell’artista, che gioca con lo spettatore, ma soprattutto con il tempo.
Per entrare in un album di memorie: quello, appunto, dell’artista, che è un tempo multiplo e simultaneo, dove si addensa il visibile di uno spazio passato attraverso l’immaginazione, trapassato da ciò che resta come puro frammento di un dato oggettivo, di un evento, di una correlazione di cui non si ricorda il motivo ma in cui si sospendono bagliori intermittenti di senso, di sensazione, tanto inspiegabili a volte quanto intensi.
“S’albera il vuoto”, dice di sé intitolandosi un piccolo paesaggio di biacche dense su densi azzurri-viola che mimano forre e montagne.
E’ uno dei casi che con più precisione descrittiva lasciano intendere il luogo. Che può essere, altrove, mare e pianura, acque o terre. Ma in altri casi, ancora, la topografia si allarga, si sconfina e del “soggetto” rimane un’impronta leggera. Segni di nuvole forse, tratti, scritture senza codice, serpentine, rèfoli d’erbe o vento che trascina con sé, di notte, minuscoli segnali di luce. Si può ritrarre l’insostanziale con questa rapidità del paesaggio di un segno, di una macchia, e tuttavia la struttura d’insieme non si perde.
Marisa Settembrini compone sempre con esattezza, il suo controllo è vigile. Gli inchiostri colano trasparenti sulle carte così sensibilizzate, lo spazio ne è toccato musicalmente, le ripartizioni del colore segnalano la profondità, la prospettiva, l’intenzione verticale, la fluidità.
Quelli che erano ritratti, ora tratti o tratteggi fantasmatici, tornano come indizi. Il collage è il mezzo dell’apparizione. O della citazione.
Abitano quegli spazi insostanziali e però vertiginosi nell’impazienza dei segni, abitano quelle memorie di un paesaggio interiore riportato in luce anche le ragioni lontane di questo prendere appunti su una natura che sembra letta con lo strumento del “come disperso dappertutto” e del “come raccolto insieme”. Ragioni dell’arte non dissimili dalle ragioni della natura se quei frammenti (collage) che qua e là riappaiono ci rivelano, di nuovo, una specie di nostalgia dell’origine.
Dolcemente, o dolorosamente. Riconoscibili, e con una intenzione non segreta di dirci l’alternarsi maschile-femminile, soprattutto femminile, della fecondità, della nascita, del desiderio, della vecchiaia, della forza, della perdita, della riacquisizione del senso di un ciclo.

Roberto Sanesi


Fa piacere, e consola, in un periodo tanto disattento, per non dire avverso, alla verità della poesia (la quale ben poco vantaggio trarrà certamente dalle benevolenze tardive e strumentalizzate delle nostre Governanti verso tre o quattro spelacchiati vati), il constatare che qualcuno c’è ancora che ha il bisogno e il coraggio di ricordarsi di Dante Alighieri. Magari per tentare l’ardua impresa di “illustrare” qualche suo verso – che sempre, pur se a volte “minore”, è lievitante, è vivo, sacro e mai stantio - , al fine di provare a far provare anche visivamente quella risonanza meravigliosamente arcana che persino ogni singola parola di quel genio ha. E per chi non capisce questo, suo sia il danno.
E’ bene rilevare subito però che l’illustrare, cioè il dire o il ridire con altro linguaggio, la grande poesia è quasi impossibile. O almeno lo è stato, spesso, poiché se noi vediamo le fatiche in tal senso degli antichi (si ha notizia di miniature “dantesche” eseguite nel 1335 circa da un allievo fiorentino del pittore e miniaturista Pacino da Bonaguida) come dei rinascimentali e dei moderni (e qui è doveroso ricordare le preziose mostre allestite, da una diecina d’anni in qua, dal dantista illuminato Corrado Gizzi nel suo Castello di Torre de’ Passeri in Abruzzo: con opere di Botticelli e Blake, di Raffaello e di Fussli, di Signorelli e Zuccari, e via di seguito fino a Guttuso e Sassu); a vedere le loro fatiche, dicevo, si ha come l’impressione di assistere non tanto a un travisamento, quanto a una sorta di vestizione con abiti in vario stile dei vari personaggi, da Virgilio a Beatrice e celestiale compagnia. Cioè: lo “spettacolo” è sì visivamente rammemorante nonché suggestivo grazie al disegnare e al dipingere spesso perfetto, ma raramente esso è vivo di ragioni interiori, fantastiche e formali alighieresche. Così a me pare.
Comunque sia – e lasciando aperta la discussione – personalmente io rimpiango due serie di “illustrazioni” di questo eccezionale tema: la prima delle quali, però, non è stata, probabilmente, mai fatta; mentre la seconda esisteva ed era certamente stupenda: ma andò a fondo nel mare… Mi riferisco, per la prima, al davvero deplorevole fatto che Dante pur essendo certamente disegnatore (e anche pittore, o almeno intenditore di pittura) come si legge nella sua “Vita Nova”, capitolo XXXIV, non si curò affatto di comprarsi un bel taccuino, tracciando in esso ritratti, mappe infernali e paradisiache e quant’altro vedeva in Garfagnana o magari a Fucecchio (dove venne sbuzzato un suo cugino), o immaginava andandosene a spasso sui Lungarni: per poi descrivere il tutto con i versi. Non lo fece, preso com’era dalle donne e, purtroppo , anche dalla politica…Secondo caso sfortunato: Michelangelo, come si sa per certo, studiava in continuazione la “Divina Commedia” (quasi sicuramente in una copia col commento del Landino), e via via nei bordi bianchi scriveva commenti e faceva disegni. Oggi quella copia varrebbe miliardi: ed invece un bel giorno il Buonarroto, preso da una delle sue solite mattane, o paure, decise di ritornarsene da Firenze a Roma: perciò in fretta e furia riempì delle sue robe due o tre bauli, ci buttò dentro anche il suo “Dante” e li spedì a Roma via Arno-mare. Neanche a farlo apposta ci fu, a quanto si tramanda, una tempesta, e addio nave, bauli e “Divina Commedia”: tutto a pesci…
Ripensavo a queste che spero non vane storiette guardando e riguardando i lavori in cui la pittrice Marisa Settembrini ha affrontato con esemplare coraggio nientemeno che alcuni motivi, o scene, del “Paradiso”, che del “poema sacro” è la parte più bella, più difficile, più astratta, ma anche la più arzigogolata e qua e là “pesanta”, come direbbero in Brianza, e macchinosa (diamo un contentino a don Benedetto Croce), ravvivata tuttavia assai spesso da momenti d’infinita bellezza. Ebbene, secondo me, oltre al coraggio la nostra pittrice ha avuto un’intuizione geniale, moderna, ricorrendo a quella operazione che Samuel Beckett  argutamente definì “furto di gioielli”, e cioè la citazione, ricorrendo alle mirabili miniature con cui Giovanni di Paolo (Siena 1395/1400 circa – 1482) illustrò, ma è meglio dire adornò, il “Paradiso”, miniature che se pure risentono secondo gli studiosi del tardogotico, delle influenze di Simone Martini, del Lorenzetti e compagni confluendo in uno stile estroso e tormentato, hanno tuttavia una loro propria autonomia palpitante, preziosa e arcana che a noi, viventi in un’epoca di disegnatori pessimi e di schiccherellatori  coloristicamente spesso imbastarditi, danno una “sensazione” che è subito grande (come si ricorderà Cézanne parlava di “piccola sensazione” come punto di partenza del fare pittorico); grande, cioè viva per colore e struttura e profonda poeticamente.
Orbene, la Settembrini non è ricorsa al grandissimo e sfortunato (le sue opere sono state quasi tutte spezzettate e vendute in mezzo mondo) autore di tante “biccherne” – cioè copertine dei registri comunali – per interpretare i fatti danteschi “alla maniera di”, ma bensì facendo di alcuni dei di lui momenti pittorici il seme o il nocciolo delle proprie raffigurazioni, o meglio ambientazioni: sicché il suo quadro, la sua pittura sia come, direi, il cielo, lo spazio in cui si irradia, in cui respira e cresce, fiorisce e fruttifica il seme, appunto, definito dal maestro senese. Non so se riesco a rendere l’idea: ma intendo dire che questi quadri della nostra pittrice sono come un firmamento di giorno, con tanto di stelle brillanti e un bel sole che in mezzo ad esse e su tutto trionfa. Oppure anche che la storietta narrata da Giovanni di Paolo è un concetto che illumina tutte le potenze dell’anima. E così via.
Ne consegue che il quadro si fa paesaggio che è insieme stato d’animo e visione, e viceversa; è come una pagina non fitta di parole descrittive, ma ricca di una parola che da sola basta, appunto perché irradiante, a soddisfare gli occhi e a nutrire la mente. Parola preziosa, intorno alla quale il colore è di pasta diversa, richiama la corteccia o l’intonaco; mentre forme geometriche di vario tono sembrano richiamare le strutture teologiche che sostengono l’immaginazione. O anche elementi che ci riportano alla realtà che siamo; e dalla quale parte la poesia con le sue scelte e le sue mète, seguendo l’indicazione data dal verso citato e che nelle figure antiche e nella pittura odierna si incarna.
Resterebbe da dire, o meglio accennare, dei possibili richiami stilistici che si possono notare qua e là nelle stesure settembriniane: ma non so a cosa può alla fine servire l’individuare qui un ricordo di Twombly e là uno di Mattioli. L’importante essendo la capacità e la sensibilità con cui l’intuizione è stata sentita e portata avanti, senza fermarsi all’idea dell’idea, o alla sensazione dell’idea. Conta, insomma, la partecipazione precisa e severa a quel che Dante Alighieri dice e a quel che Giovanni di Paolo rappresenta: cercando di far sì che il seme da loro gettato non cada tra le pietre, ma bensì in una terra fertile per mestiere, umiltà e capacità di incantamento.

Enzo Fabiani

1991 Su

Dietro l'immagine.

Andando dalla realtà all’immaginario, il naturalismo offre un’immagine fantastica del reale. Nell’esangue e opulento occidente, è raro ormai incontrare una figura di donna taciturna, attenta, trasognata e testarda, antica insomma, come certe mandarine cinesi, volte al secolo XX.
Pochi, pochissimi artisti italiani hanno avuto, come Marisa Settembrini, il privilegio tra i venti e i trent’anni (classe 1955 per precisione) di entrare nelle pagine di critici e saggisti come Virgilio Guzzi, Marco Valsecchi, Giulio Carlo Argan, Luigi Carluccio, Franco Russoli, Sebastiano Addamo, Dino Villani. L’aveva già notato anni addietro J. Pierre Jouvet.
Pittura e grafica, tra l’Europa e l’America. Ma pochi come lei hanno  coraggio di spaziare dal ritratto all’informale, dipingendo in cucina, due metri per due. Ricordate Una stanza e mezzo del poeta Josif Brodskij? Lo studio sul etto. Gente che va e che viene. Gli studi classici. E rompe con le abitudini di famiglia. No! Mentre lo diceva è certo che il vetro cominciava a sciogliersi e svanire, proprio come una luminosa nebbia d’argento. E Alice attraversava lo Specchio. Lì dietro – marine, cieli, universi. Trecce, segni, volti.
Appunto, i volti. Rigore, pallore, cornici geometriche, cupe tinte di architetture romantiche. Tra il volto e le mani, sottile traccia di legami, di disarmonia e di indipendenza insieme. Nel ritratto dello scultore Mantovani il volto è stupore, le mani –armonia dei pesi. Quello del Kodra è intenso. Il maestro ottocentesco in spirito di uomo e di pittura, viola e bluette. Wandissima invece è una superba lavandaia tra gli spazi dipinti in tessuto bianco. Il vecchio corpo è carnale e carnoso, vivida la bocca, carnivora al femminile. Lavando il suo cadavere si dirà: che bella carne fresca ancora. Ernesto Treccani: grigi verdi in equilibrio melanconico. Asciutto profilo in grafica intelligenza. Gli artisti hanno gli occhi acuti, come gli affamati, diceva Velimir Chlebnikov. Questo sguardo forse ha il colore dell’Est. Non è forse il luogo d’oriente la terra di Puglia dalla quale proviene Marisa?
Disegni, dipinti, acquerelli. Un solido approccio strutturale. Una volontà di perseverare. Un mondo rapace di vedere. Bella? Sì, certo. Dolce? Senza dubbio. Ma come sapete nello Specchio non potete vederne che il retro. E non si finirebbe mai di nominarle tutte queste incarnazioni di donne, uomini, fanciulli. Si vorrebbe ancora parlare delle mani. Nervose ingigantite presenze o esseri che raccontano loro storie parallele. E mentre il volto può restare come truccato per il palcoscenico del tempo, le mani sono spesso bestie oscure, tormentate, infantili (mentre lo sguardo è aggressivo) o stanche.
Terribilmente stanche da tanto lavoro di vita.
Non è mai immagine di una posa. Nessuno è Madame Récamier. La bella di David posava la sua mano di dea. Il suo spirito era ancora da venire. Dopo che eran divenute inutili tutte le sue altre risorse per piacere (Merimée).
Settembrini non cerca drammi. Si perde nell’immagine come in un interno. Alice, appunto. Non attende la bellezza. Ama anche l’altra bellezza, che non consiste nella perfezione ma nel profondo di questi segreti interni umani. La loro prossimità allo spettatore crea una strana tensione. Tra le figure realistiche e l’inaccessibile luce magica sta l’artista: disperato cacciatore di unicorno. Dunque dramma. C’è qualcosa di più drammatico dello sguardo in uno spazio secolare, angusto, allinearli e farne fregio contro una parete. Tanti specchi di sé.
Come si trova di fronte a tale cimitero di Fayyum il nostro inventore dei più “inediti” fotogrammi (Longhi)? Investigatore dostojevskiano, nell’evoluzione della complessa sensuosità, in uno slancio generoso, dispone i suoi eroi in vari atteggiamenti di sgomento, timore abbandono, lontananza, presunzione, fuga, disponibilità, narcisismo. Li dispone con lieve gesto e vigoroso pennello, ai piedi della trionfante Primadonna: l’Anima. Così indiscutibile che artista e ritratto mescolano le loro luci e colori sulla lama visibile/invisibile. C’è un tempo quando due mondi si toccano e ci diventa – per un attimo di tempo – contemplabile perfino questo congiungimento. Che non è altro che realtà concentrata sulla linea di frontiera visibile/invisibile.
Come in un’icona, nel ritratto il tempo è istantaneo e capovolto. Come nel sogno scorre incontro al presente, all’inverso al movimento di coscienza che è la veglia. Il primo si capovolge su se stesso. Con esso si capovolge l’immagine concreta. E’ così che un ritratto diventa SPAZIO IMMAGINARIO.
Descartes ci insegna lumen naturale, l’altro mezzo che l’intelletto permette di distinguere bene dal male. Ma l’uso del termine è per principio ambiguo in Descartes. L’anima in ragione, non la provenienza divina, assicura nel suo sistema l’immortalità dell’anima. L’anima-ragione si perfeziona attraverso la finestra dei sentimenti, attraverso lo specchio dell’autocoscienza (Kirkinen), ingloba le idee in forma di immagini o di quadri. Ecco materia pensante cartesiana: una vera quadreria.
Questa primaria settecentesca percezione del ritratto con la sua finissima dialettica del doppio ci serve ad invitum per il complesso repertorio di personaggi nell’arte di Marisa Settembrini.

Evelina Schatz

1988 Su

Segni e occasioni di segni.

Talvolta, sia pure ricorrendo a una eccentrica immagine, sono quasi tentato di pensare che il disegno, rispetto alla pittura, sta come l’anima rispetto al corpo.
Il colore dilata spazi e ombre, dove il disegno è essenziale, vive soltanto per la forza di se stesso.
Scegliere il disegno, come fa Marisa Settembrini, è dunque scegliere l’essenzialità, la sottigliezza, ma anche la finezza, l’esattezza, un modo composto e rattenuto di esprimere la propria emotività magari utilizzando le realtà piccole e ovvie del quotidiano (un albero, un muro, un volto di donna, le ramificazioni di una grata, la porosa umidità di un tetto di tegole, un cumulo di pietre), per tradurre la propria visione del mondo nel nitore del segno, nella concreta identità dell’oggetto.
Le cose sono le cose, sembra di poter dire a proposito della Settembrini utilizzando i parametri di un poeta contemporaneo che a un proprio libro diede come titolo: Il partito preso delle cose.
Dalle cose muove la Settembrini, quasi sollecitata dal loro stesso essere, dalla densità della materia, dagli spessori e dalle fragilità, forse alcune volte preferendo le zone interstiziali del reale (o dell’esistenza), la luce, per esempio, come trapelare dai rami di un albero, la ferma ombra proiettata da una parete.
La Settembrini, pur nell’ansia di rarefazione e di leggerezza, mantiene questa fedeltà al mondo, alla elementare semplicità del paesaggio, al ritmo della luce e dell’ombra.
Però è strano.
Emerge dalle tavole della Settembrini un sentore quasi di immobilità, di rigida compostezza, come se essa vedesse le cose fuori dalla vita, raggelate, in se stesse, prive ormai di una funzione che esse forse hanno avuto, ma non hanno più. Come se esse fossero segni e occasioni di segni.
Forse l’albero è il suo frastaglio di rami, o lo scavo d’ombra del suo tronco; forse la casa è ormai disabitata.
Come quando si ascolta una voce e l’eco di essa. La Settembrini sta attenta all’eco, a ciò che è passato, ai silenzi che subentrano; nasce una malinconia struggente, una accoratezza quasi serena e senza riparo.

Sebastiano Addamo

1987 Su

Foglietto per Marisa Settembrini.

L’esperienza degli artisti non arriva sempre con l’età e come risultato di un lungo esercizio, ma dal modo seguito nel compiere la loro preparazione e nell’esercitare sempre con scrupoloso impegno la loro attività. Marisa Settembrini è assai più matura di quanto l’età potrebbe far attendere, ha compiuto i suoi studi a Brera e a Monaco e ha guardato gli artisti che la interessavano, guidata da un accentuato spirito di osservazione e da un acuto ostinato senso dell’analisi, che le hanno consentito di compiere ogni esperienza rapidamente ma con grande equilibrio, così che può far sentire, anche sotto le composizioni astratte, la solidità di una struttura ben ancorata e calcolata.
Se il periodo monacense può aver accentuato una carica espressionista che le deriva dal calore e dal colore della terra di Puglia dalla quale proviene, la sua sensibilità la spinge sovente ad abbandonare gli schematismi di forma e di colore verso i quali protende nella foga di riassumere, per soffermarsi su passaggi tonali delicati che sprigionano un afflato poetico permeato da dolci note musicali.
Spesso, il senso dell’analisi, la spinge a soffermarsi su certi particolari o a esaltare un dettaglio, mostrando così di sentire trasporto specialmente per quello che sfugge all’osservatore superficiale, portato magari ad esaltarsi soltanto per l’immagine fissata in uno dei suoi fuggevoli istanti felici e non rileva il particolare così ricco spesso da racchiudere l’intero spirito delle cose.
Marisa Settembrini affronta anche temi di grande impegno e dalla complessa composizione, ma se mettiamo insieme un gruppo di suoi disegni o dipinti, riusciamo a comporre un mosaico delle sue vaste possibilità espresse volta a volta con un gioco di luci e di colori, con una alternativa di immagini diverse nel carattere, che finiscono per mostrarci un’artista poliedrica che può liberamente spaziare in un senso e nell’altro, con le medesime possibilità di successo.
Un’artista che ha bruciato le tappe dell’iter preparatorio fin dai primi anni, ed ha poi messo alla prova le sue conquiste con risultati che le hanno consentito di esporre con successo in Europa e in America ed interessare i grandi personaggi della critica nazionale: da Russoli a Carluccio, da Argan a Valsecchi. Un’artista che sente nell’arte uno dei più validi mezzi per la ricreazione dello spirito, anche se si esprime soltanto con il affinamento dei modi espressivi, in un segno o in una nota cromatica.

Dino Villani

1986 Su

Pochi, pochissimi artisti italiani hanno avuto, come Marisa Settembrini, il privilegio, tra i venti e i trent’anni di entrare nelle pagine di critici e saggisti dell’autorevolezza e della notorietà di Virgilio Guzzi , Marco Valsecchi, Giulio Carlo Argan, Luigi Carluccio, Franco Russoli…Un autentico primato, che legittima le significative affermazioni conseguite da questa feconda e originale “virtuosa” della pittura e della grafica in prestigiose gallerie italiane ed estere, come la “Rizzoli Arte” di Milano, la “Wulfrath” di Dusseldorf, la “3R. D. Ave” di New York.
Pochi artisti, come la Settembrini, hanno avuto il coraggio di affrontare e risolvere problematicamente linguaggi artistici assolutamente antitetici l’uno rispetto all’altro: dal figurativo (però non accademico, non ripetitivo di modelli logori e ormai privi di carica emotiva) alle più difficili tendenze dell’informale.
Dunque un’esperienza, quella di Marisa Settembrini, che non si è rifugiata entro i comodi limiti di un qualsiasi magistero (ha studiato e fatto pratica a Brera e a Monaco di Baviera), ma ha obbedito agli stimoli creativi della ricerca, della sperimentazione, con tutti i rischi delle verifiche, dei ripensamenti, dei processi evolutivi, sia sul piano formale che su quello dei contenuti. Insomma nessuna resa, da parte sua, al rituale, ma neppure alle seduzioni delle mode, ai vizi delle effimere occasioni contingenti, alla provvisorietà dei gusti temporanei e, in conseguenza, delle richieste di mercato.
Un’arte, quella di Marisa Settembrini, che interpreta istanze precise, che riflette non stati d’animo passeggeri ma situazioni complesse: umane, culturali, sociali, psicologiche. E sempre con serietà e dignità, con rigorosa disciplina concettuale, ineffabile poesia.

J. Pierre Jouvet

 
 
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